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L’ADOLESCENZA RUBATA DAL COMPUTER
Hikikomori, sindrome che isola i ragazzi dal mondo reale
(Sindrome di Hikikomori:
l'Anoressia sociale
che arriva dal Giapponese )
a cura di Luisa Barbieri
In Giappone si racconta la storia di uno, cento, mille adolescenti che, come all'improvviso, chiudono la porta della loro stanza come se volessero distaccarsi da un mondo che non riconoscono come loro e/o che li spaventa.
In quella stanza che da sempre li ha ospitati, magari tra la confusione che solo un ragazzo di 15-16 anni sa creare, hanno preparato le lezioni scolastiche per i giorni successivi, hanno trascorso ore al telefono chiacchierando allegramente con l'amico o l'amica del cuore, hanno sognato proiettandosi verso quel mondo che ora si è trasformato in “quel posto” ostile.
Quella stanza cambia aspetto e l'allegra confusione di un giovane adolescente si trasforma in disordine maleodorante dominato dalla penombra, come se l'immagine rovesciata del mondo da cui stanno scappando impedisse al sole di inondare di luce ogni cosa che si lascia incontrare.
La famiglia non riesce a comprendere: ciò che sino a poco tempo prima era consueto, ora è scomparso, tutto si è trasformato in un incubo che avvolge e coinvolge ogni membro della famiglia.
Quella porta rimane chiusa per giorni, settimane, mesi, anni.
“Che ci sarà dietro quella porta ?”
“Che farà il nostro ragazzo ?”
Viene a mancare persino la condivisione del pranzo e il cibo viene forzosamente passato attraverso una fessura come a significare: “il mio mondo non va oltre quella porta e in questo momento non contempla la presenza di ospiti”.
Non vengono fornite spiegazioni circa l'instaurarsi del nuovo comportamento, l'autoesclusione da ogni scambio interpersonale diviene un fatto dinanzi al quale lo scorrere delle giornate di una famiglia sino a quel momento “normale” inceppa ogni meccanismo comprensibile.
La famiglia trema.
Ogni tentativo da parte dei genitori di intaccare l'atteggiamento escludente e mortifero del loro ragazzo risulta, invece, invischiante e sterile.

Spesso se ne stava lì intere e lunghe notti, senza dormire un minuto e raschiando per delle ore il cuoio. Oppure, senza spaventarsi della fatica, spingeva una seggiola verso la finestra, si arrampicava sul davanzale puntellandosi sulla sedia e vi si affacciava poi, evidentemente per un vago ricordo del senso di liberazione che provava una volta a spaziare fuori con lo sguardo
(La metamorfosi, F.Kafka)


Già negli anni '80 in Giappone si tentò di descrivere e quindi definire tale fenomeno socialmente preoccupante emerso all'incirca dieci anni prima, quel corredo di atteggiamenti chiaramente espressione di disagio, e venne coniato il termine "hikikomori", contrazione di shakaiteki hikikomori (ritirarsi dalla società).
Hikikomori, traducendo alla lettera, come “uno stare in disparte, un isolarsi", è un fenomeno in evoluzione nel contesto sociale nipponico, un fenomeno in espansione, tanto è che pare fare capolino anche nel nostro Paese, sostituendosi e/o sovrapponendosi ai disagi relazionali che, più sintonici al nostro contesto sociale, presentano maggiore incidenza in Italia .
A tutt'oggi in Giappone si contano un milione di adolescenti rientranti in quella che specialisti del settore stanno trattando quale sindrome da disagio relazionale dell'adolescenza e della prima fase di vita adulta. Il ritirarsi dalla vita pubblica isolandosi ed evitando ogni coinvolgimento sociale pare colpire i maschi in maniera preponderante, ma, secondo il Ministero della Sanità giapponese, sembrerebbe non risparmiare neppure le ragazze (1).
Loro, gli Hikikomori, non parlano, non rispondono, rifiutano la vicinanza di altre persone, si chiudono al mondo sottraendosi ad ogni contatto fisico. I loro famigliari si trovano nel angusto
ruolo di guardiani di una prigionia “volontaria” a difesa di un mondo vissuto come minaccioso.
Ciò che caratterizza la vita al di fuori della loro stanza viene allontanato. Non passeggiano nelle strade, si negano quella “porzione di cielo” che potrebbe permettere loro di assaporare il colore dell'adolescenza; abbandonano la scuola allontanandosi sempre più dal fulcro del mondo concreto. Si lasciano intrappolare dall'esistenza virtuale, così che internet diventa lo strumento per raccontarsi, trovare soluzioni, cercare nuovi amici.
Amici che, come loro, sono invischiati nella rete virtuale; amici che, come loro, preferiscono sottrarsi ad ogni tipo di contatto reale sostituendolo con quello più immediato e meno carico di paure garantito dalla virtualità che, come un feticcio, è capace di donare forza e coraggio con caratteristiche magiche.
Si creano così un mondo nel quale “non si corrono rischi”, soprattutto in ambito relazionale. Le modificazioni del tono dell'umore, le alterazione del vissuto temporale, la cognizione completamente orientata all'utilizzo dominato dall'impulso irresistibile verso il computer, contribuiscono a definire e ad aggravare il disagio.
Un disagio che si può comprendere se lo si identifica quale dipendenza dalla negazione di potere essere parte attiva di un sociale tanto lontano, quanto vissuto come al di fuori delle proprie capacità.
Questi ragazzi diventano schiavi di una vita sedentaria, rinchiusa in una ambiente vissuto come protetto e contraddistinto da un proprio linguaggio, uno specifico abbigliamento, atteggiamenti e comportamenti diversi rispetto al mondo reale nel quale sono, o erano, abituati a vivere.

“Mi chiamo Masamura Kanda,
ho 22 anni e lavoro nel campo dei computer. Sono nato a Tokyo, adesso vivo nel quartiere Koganei.
Mi é difficile comunicare. Quando incontro persone nuove sto male. Oggi usiamo il video-cellulare, così non dobbiamo incontrarci. I miei genitori non l'avevano.
Sono felice quando gioco ai videogames o guardo i films. Da bambino giocavo ai videogiochi e ancora oggi trovo sia più facile giocare da solo che non giocare con gli altri.”
“Mi chiamo Yasuaki Wada, ho 21 anni, vengo da Nigata, ma ora vivo a Tokyo Koganei, sono un hikikomori.
Hikikomori significa: nascondersi nel proprio guscio. Significa oscurità, tristezza, solitudine.
I miei genitori non avevano i videogiochi, giocavano in strada con gli amici e penso fosse un bene.
Stare in casa è confortevole, fuori c'è tanta gente! Conoscere gli altri può essere doloroso, preferisco non vedere facce nuove, anche perché non so cosa fare della mia vita.
Gli “Hikikomori” hanno problemi di comunicazione, paura di uscire e mescolarsi: forse perché temono le interferenze dii altri.” (2)
Testimonianze cariche della paura del vivere che caratterizza sempre più le nuove generazioni. In ogni cultura l'espressione di tale paura assume connotazioni caratteristiche sino a confluire in un atteggiamento comune: autoesclusione dalla vita sociale!
Se nel nostro Paese gli adolescenti e i giovani adulti, spaventati da un contesto sociale che non riconoscono e nel quale si vivono inadeguati ed impotenti, sviluppano dipendenze legate al consumo di sostanze obnubilanti e/o dipendenze dominate dalla negazione dei bisogni primari, in Giappone, espressione di un Paese carico di tradizioni antichissime gettato nel vortice della “crescita” globale, si registra il fenomeno di autoesclusione definito Hikikomori. Il picco nell'utilizzo delle nuove tecnologie, associato alla decadenza del pensiero umanista che affligge il Pianeta, pare essere individuato quale maggior responsabile dell'insorgenza di tale sindrome.
Negli Stati Uniti lo psichiatra Ivan Goldberg la definisce Internet Addiction Disorder (I.A.D.) e la descrive come una sindrome da dipendenza che si manifesta con i classici sintomi caratteristici dell'astinenza e della tolleranza psicofisica:
1. bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per ottenere soddisfazione;
2. marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano Internet;
3. sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell'uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa accade on-line, classici sintomi astinenziali;
4. necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o per periodi più prolungati rispetto all'intenzione iniziale;
5. impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l'uso di Internet;
6. dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete;
7. continuare a utilizzare Internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici recati dalla rete. (3)
La rete di internet favorisce l'insediarsi di intensi e piacevoli sentimenti di fuga. La fuga di chi non riesce a confrontarsi con la realtà. Ecco che si illude di superare in maniera accettabile i problemi difficoltosi della vita sociale con l’ effetto illusorio e transitorio del virtuale, effetto appagante del “trip” da stupefacente.
Si instaura un vissuto di onnipotenza strettamente connesso, sempre in termini illusori, con il superamento dei limiti spazio-temporali. La distorta percezione del tempo chiarisce l'impulso irresistibile, motore del problema: "qualunque sia la ragione di partenza per avventurarsi nella navigazione on-line, presto si impara che trovare ciò che serve e poi uscire è ben di rado semplice e veloce".
Il tempo sembra fermarsi in rete o almeno assumere una connotazione tutta sua, tanto da indurre una spinta scevra da ogni reale finalità che, collegamento dopo collegamento, intrappola in un groviglio senza fine trasformando i minuti in ore, giorni, mesi o anni.
Il distacco dal reale è immediato e spesso la reazione di chi è avviluppato nella trappola virtuale a sollecitazioni provenienti dal mondo è carica di aggressività. Tale aggressività viene provocata dall'azione di disturbo che la realtà negata produce in chi vuole vivere il suo parallelismo virtuale.
Negazione ed evitamento del confronto dominano l'esperienza, esattamente ciò che accade ad un alcolista che, posto dinanzi ad un esame di realtà riferito alla sua pulsione irrefrenabile verso il consumo di alcolici, dichiara e si ripromette:”solo un bicchierino ... per stare in compagnia” pur sapendo che l'ultimo è sempre il primo. Per chi sta nella rete atemporale di internet sarà il tempo quell'ultimo-primo approccio irrazionale a dominare: “ancora un minuto e spegnerò ... un minuto non potrà fare la differenza...”, ma quel minuto si trasformerà presto in ore.
La negazione del problema in atto comporta notevoli difficoltà nel chiedere aiuto.
Come potrà mai essere possibile superare un ostacolo che non si riconosce come tale ?
Un ostacolo che pare più una fantasia altrui che non un impedimento vitale oggettivo. Non possiamo, poi, sottostimare, quale aggravante, ciò che il web rappresenta nell'immaginario collettivo essendo apprezzato per il suo potere innovativo e la sua potenza in ambito comunicativo.
Quando questi ragazzi vengono messi dinanzi all'evidenza dell'esprimere un comportamento tossicomanico si trincerano dietro il luogo comune secondo il quale internet è grandioso, "non può far male", del resto la rete può essere vista e vissuta come un'enorme vetrina sempre in allestimento in cui ogni individuo riscontra una propria soggettività nel modo di viverla; analogamente alla vita "reale" si possono imboccare strade "corrette" e strade "pericolose".
Ogni giorno molti utenti rischiano di allontanarsi dai rapporti interpersonali "faccia a faccia", indispensabili per una vita sana e socialmente equilibrata, preferendo relazioni virtuali che portano ad una spersonalizzazione e ad una proiezione di se in un luogo non fisico che, data la facilità, la velocità e l'ampiezza geografica dei rapporti il soggetto preferisce. L'utente, nascondendo la propria individualità dietro al proprio monitor, si sente più protetto, più sicuro.
Il dott. Tamaki Saito (direttore del Sofukai Sasaki Hospital) (4) , considerato a tutt'oggi il maggior esperto della sindrome di Hikikomori, rivolge l'attenzione, quale causa primaria, alla complessità della cultura giapponese. Una cultura che pone le sue radici nella filosofia esistenziale espressa dal Confucianesimo nel contesto del quale il primo ambito sociale in cui l'uomo impara ad essere autentico è la famiglia. Il figlio apprende la pietà filiale, ossia deve al padre rispetto e sostegno nella vecchiaia, mentre il padre gli assicura protezione e lo aiuta a formarsi.(5)
Tale terreno sociale, travolto dalla conquista tecnologica globale, parrebbe compatibile al disagio che i giovani devono imparare a tollerare nel corso della loro crescita: “Meglio isolarsi che competere!”, in quanto il rischio di fallimento pare troppo elevato in relazione alla consapevolezza delle proprie capacità.
Un “farsi fuori” dal gioco della vita teso a difendersi da ipotetici e probabili delusioni procurate ai genitori animati da elevatissime aspettative nei confronti del futuro professionale dei loro figli; del resto il paese in netta “evoluzione” ha bisogno di imponenti forze capaci di mantenere il livello e, se possibile, elevarlo.
“In internet puoi trovare molte pagine che trattano di suicidio, tutti possono “chattare”: tutti i giapponesi nascondono un piccolo desiderio di morire.” (2)
Claudia Pierdominici (6) nel corso di un'intervista al dott. Saito pone appunto la questione dell'incidenza dei suicidi tra gli Hikikomori, l'esperto afferma con sicurezza che in realtà la percentuale di suicidi è molto bassa in contrapposizione con ciò che invece i ragazzi tendono a dichiarare. In realtà, come possiamo vedere nelle espressioni sintomatologiche autoescludenti (vedi anoressia nervosa) a noi più note, il marcato narcisismo (7) evidenziabile negli hikikomori li salva: una sana espressione di autocompiacimento impedisce loro di togliersi la vita; vorrebbero ma non possono.
Il soggetto non pare mostrare particolari caratteristiche nell'ambito della struttura di personalità, certo è che l'isolamento dal quale diviene dipendente può indurre nel tempo sintomi importanti quali antropofobia, paranoia, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione.
I Paesi a tutt'oggi maggiormente colpiti dal fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana nell'ambito della quale l'indulgenza nelle relazioni interpersonali è caratterizzante, specie se si tratta di relazioni parentali, dalle quali ci si aspetta un certo grado di soddisfazione emotiva.
Nel contesto della cultura occidentale l'autoesclusione, di per se presente, tende ad esprimersi piuttosto attraverso le dipendenze da alcool, droghe e negazione dei bisogni primari (disturbi del comportamento alimentare, in particolare anoressia e bulimia). I giapponesi, vivendo in un contesto molto attento al gruppo e all'armonia, invece di esporsi reagendo concretamente, preferiscono il silenzio, in effetti tra i primi segnali si rileva l'abbandono scolastico seguito dal graduale rifiuto di ogni contatto con l'ambiente esterno.
In un bell'articolo firmato da Maggie Jones comparso sul New York Times del 15 gennaio 2006, ”Shutting Themselves In” (8) si raccontano storie di giovani che rinchiudono in piccole stanze le loro vite adolescenziali vissute in maniera differente da ciò che loro stessi credono che il sistema pretenda.
Sono storie come quella di Takeshi, 15 anni, che una mattina chiuse la porta della sua camera da letto e per i seguenti 4 anni non ne uscì. Non frequentava la scuola, non lavorava, non aveva amici. Mese dopo mese passava 23 ore al giorno in quella stanza non più grande di un materasso a tre piazze; stanza ove mangiava gnocchi, riso e altre pietanze che la madre gli cucinava; guardava i game-shows televisivi ed ascoltava i Radiohead e i Nirvana. “Qualcosa” diceva “ che fosse oscuro e suonasse disperato”.
Soprattutto i maschi adolescenti si percepiscono sottoposti a pressione sociale quando confluiscono nelle scuole secondarie, in quanto pare giocarsi il successo personale in pochi anni, vista la competizione sociale in atto, come afferma James Robertson, antropologo culturale al Tokyo Jogakkan College ed autore del saggio "Men and Masculinities in Contemporary Japan." . “Noi giapponesi crediamo agli occhi degli altri – scrive il dottor Tamaki Saito – ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati”.
Tale pressione parrebbe indurre la messa in atto di un meccanismo di difesa che, come tutte le espressioni di autoesclusione, altro non può che trasformarsi in offesa.
La sequela di interviste riportate dal documentario di Francesco Jodice e Kal Karman ci permettono di comprendere un po' meglio come i ragazzi giapponesi si percepiscono in relazione al contesto sociale nel quale devono vivere:
“Sì, forse ci sono più “Hikikomori” maschi, in quanto i maschi sono deboli, più deboli delle donne. Io penso che siano malati, sono in tante le persone che si percepiscono frustrate nel comunicare. Credo che i giapponesi non siano capaci di comunicare in quanto sono ragazzi timidi, non come gli italiani e gli americani che non lo sono e che comunicano molto bene, i giapponesi ... no!
A casa le madri parlano molto, mentre i padri non lo fanno. Il figlio osserva il padre e in tal modo impara a non reagire.

"In Japan, mothers and sons often have a symbiotic, co-dependent relationship.
Mothers will care for their sons until they are 30 or 40 years old.
"
(Rees 2002)

(in Giappone madri e figli spesso solo legati da un rapporto simbiotico, un rapporto co-dipendente.
Le madri si prendono cura dei loro figli sino a che essi non abbiamo raggiunto i 30 40 anni – Rees 2002)

Negli anni '80 la rabbia giovanile veniva fuori, oggi, invece, la rabbia, le emozioni sono represse.
I nostri genitori volevano più denaro a disposizione e quindi lavoravano come bestie e non avevano tempo per i figli che si trovavano così nella posizione di potere fare qualunque cosa, senza regole, senza controllo.
Noi figli li abbiamo osservati a lungo e abbiamo deciso di non essere come loro.
Gli adulti ci considerano pigri e ci dicono: “ trovati un mestiere e lavora duro!”
Mio padre mi sgridava sempre, io mi sentivo frustrato, molti ragazzi sentono questo tipo di rabbia verso i loro genitori.
...
Alle volte a scuola i compagni ti escludono, in certe famiglie il padre picchia il figlio.
Oggi i ragazzi non incontrano molta gente, è come se ci mancasse una ragione per vivere.”
Le considerazioni di questi ragazzi non differiscono da ciò che si ascolta in ambulatorio quando ci si trova dinanzi un soggetto affetto da sindrome relazionale che tende comunque a creare una condizione di isolamento sociale, sia che essa si esprima attraverso l'uso-abuso di droghe, sia che passi attraverso un disequilibrato rapporto con il cibo e/o con il corpo.
In Italia, così come in tutto il mondo occidentale, gli adolescenti e i giovani adulti autoesclusi sembrano un fenomeno in crescita: una risposta ad un contesto sociale omologante, coartativo, frustrante, esprimente, attraverso le sue dinamiche, aspettative di “perfezione” e di adattamento ad un archetipo poco umano e sempre più virtuale.
La criticità di pensiero, così caratterizzante l'individuo nella sua espressione più adeguata al ben vivere, si è trasformata in induzione al disagio ed è così che ragazzi brillanti, intelligenti si trovano a scontrarsi contro modelli di riferimento, così importanti nella fase adolescenziale ove l'identificazione rappresenta l'essenza. Modelli “costruiti in laboratorio” in sintonia con le esigenze del sistema che, così come si propone oggi a salvaguardia di se, controlla appiattendo il pensiero critico, abbattendo ogni forma di comunicazione che non sia quella codificata.
La risposta non può essere che la rinuncia al vivere, in quanto in questi termini diviene frustrante ed inadeguato. La forza della rinuncia si autoalimenta tanto da trasformarsi nell'unica occasione per percepirsi, pur nella sua vacuità.
 

Entrare nel mondo di questi ragazzi pare impossibile, in quanto vivono in una loro dimensione che, a difesa, chiude ogni spiraglio. (17) Gli scambi, anche quelli più intimi e confidenziali, si interrompono, ragion per cui anche e soprattutto la famiglia vacilla nelle sue dinamiche relazionali e, seppur con la volontà di portare aiuto, tende a rinforzare l'isolamento.
Per questi adolescenti decade ogni capacità decisionale e scatta una lotta contro un nemico all'apparenza impossibile da contrastare, in quanto nascosto in ogni pensiero, in ogni obiettivo, in ogni azione: meglio agire la rinuncia!
La compulsione, ossia la spinta irrefrenabile verso qualcosa o qualcuno al di là di ogni ragionevole possibilità di scelta, domina il sistema sociale e diviene l'unico strumento di proposizione: non esiste più il tempo individuale, così importante per definirsi, conoscersi ed affermarsi, esso viene sostituito dal “tutto e subito” stabilito dal contesto come se questo aderisse al concetto di perfezione tanto ambita quanto temuta ed irraggiungibile, quindi castrante.
Le famiglie d'origine, anch'esse travolte dalla sindrome ossessivo-compulsiva sociale, si piegano alle stesse dinamiche nutrendo elevate aspettative nell'ambito dell'affermazione dei loro figli spingendoli in un cuneo buio dominato dall'impotenza.
La spinta genitoriale assume le caratteristiche dell'ossessività e della iperprotettività ed accende il fuoco della paura di non rispondere a siffatte aspettative oltre ad alimentare in maniera eccessiva e deviante quella sana componente narcisistica adolescenziale che, se accolta ed incanalata, potrebbe, invece, porre le fondamenta di una crescita personale solida e soddisfacente.
Fragilità e narcisismo ipertrofico associati sono i mattoni del muro che piano, piano i nostri figli costruiscono per tentare di viversi, ma che, al contempo, impedisce loro di vedere oltre, di spingersi verso la conquista di se con inevitabile rinforzo del proprio processo di emancipazione.
La virtualità, sia che il mezzo sia internet, sia che sia rappresentato dall'obnubilamento del sensorio e/o da altra sublimazione, pare semplificare e risolvere quelli che sembrano essere problemi insormontabili proposti dalla vita.
Fromm (10) già nel secolo scorso asseriva con forza che “l'obiettivo di ogni essere umano adulto dovrebbe essere quello di imparare a vivere nel rischio”. La lungimiranza di questa affermazione dettata in tempi non sospetti, non può che meravigliarci o rendere onore all'autore in quanto si rivela a tutt'oggi il nodo da sciogliere per riuscire ad avventurarsi lungo il sentiero che porta alla vita adulta.
Oggi i nostri ragazzi scambiano il rischio di vivere con la stupida incoscienza che induce a credere che il rischio sia quello di correre ai 200 chilometri all'ora su di una strada statale magari con un'alcolemia responsabile di ottundimento sensoriale, conseguentemente si annullano nell'illusione di essere nel non essere.
Nessuna partecipazione, nessun confronto reale, nessuna relazione interpersonale passibile di scambio profondo e quindi proteso alla crescita individuale e collettiva, nessuna azione condotta seguendo i dettami della propria persona, nessun errore, nessun elemento capace di spingere in termini evolutivi.
La fragilità che traspare in questi ragazzi diviene potente induttrice di pregiudizi paralizzanti, pregiudizi che partono dalla convinzione, supportata dall'esperienza fuorviante il reale, di non essere mai all'altezza delle situazioni. Ogni difficoltà, al di là della oggettività, si trasforma in un ostacolo insormontabile e i possibili fallimenti si trasformano in blocchi inamovibili.
Il fallimento perde la sua connotazione volta ad accrescere il patrimonio esperienziale essendo l'errore lo strumento teso al cambiamento. Nel nostro contesto sociale pare non esservi spazio per l'errore, per l'essere umano nella sua umanità tanto imperfetta quanto essenzialmente perfetta nel disegno della Natura.
La cappa asfissiante del sistema si mostra quale potente protettore quando, invece, paralizza l'ideazione individuale, l'emotività nella sua più sana espressione trasformando il piacere in un moto compulsivo inondante e soverchiante. Cancella il valore del dolore quale prerequisito indispensabile all'acquisizione di quella fedeltà in se che riduce la fatica che in alcuni momenti pare impossibile da affrontare se destinata a lottare per il nostro bene, ma che ha il suo pre-sentimento nell'annunciarsi del piacere, situazione nella quale ciascuno di noi ha la possibilità di coincidere con se stesso, di riconoscere il corpo come suo e di riconoscersi in lui: quasi una risposta a un'attesa segreta, a un desiderio profondo, eppure appena accennato.
Se non vi è contatto col mondo come può nascere il piacere che solo da questo contatto può prendere origine ? “Il gusto di questo frutto non è nel frutto, come nel frutto è la polpa o il succo, ma è nel suo lasciarsi assaporare, perché il piacere, lungi dall'essere una qualità della cosa, è ciò che la cosa risveglia in me, quasi una sua eco. Posso “prendere” un fiore, ma non il piacere del suo profumo; il piacere non lo prendo, lo incontro, lo scopro, lo sento nascere in me nell'entrare in contatto con la cosa o anche solo nello sfiorarla. La mano che vuole afferrare un piacere, se lo vede sfuggire, come se il piacere fosse sempre al di là della cosa, e non si concedesse se non a un contatto discreto e delicato. Come si diffonde l'eco, così mi invade il piacere che non può essere mai localizzato, delimitato ad un punto del mio corpo. Il piacere, infatti, coinvolge la presenza nella sua totalità e la rende piacevole; non è solo il mio corpo che sente, ma sono io che coincido pienamente con la sua sensazione, perché pienamente al mio corpo mi sono concesso.” (15)
 
Il fenomeno Hikikomori viene descritto esaustivamente in una novella dal titolo: “Welcome to the N.H.K.“ edita nel 2002 dalla Kadokawa Shoten, scritta da Tatsuhiko Takimoto ed illustrato da Yoshitoshi Abe (12) nel video segnalato è possibile vedere una puntata del cartone che si rifà alla novella sottotitolato in lingua inglese, lavoro molto interessante e chiarificante il fenomeno in analisi.
Si legge dalle recensioni presenti in rete: “Welcome to NHK è un'opera coraggiosa. Non certo la prima opera del genere: già altri manga e anime hanno affrontato il tema degli otaku e dei loro disagi nei confronti della società, spesso riportandoli in chiave ironica, ma sempre con un inquietante fondo di verità.
NHK tuttavia porta agli estremi la visione di questo modo di vivere e delle sue conseguenze, e sebbene le disavventure dei vari protagonisti portano senza dubbio a diverse situazioni ilari, l’attenzione di fondo ai problemi di questo tipo di persone e la preoccupazione stessa dell’autore nei loro confronti è palese.
Il protagoniste della storia è Tatsuhiro Sato, di ventidue anni.
Abbandonata l’università dopo appena il primo anno, si è ritrovato presto nella condizione dell’Hikikomori, ovvero del giovane disadattato sociale che passa la stragrande maggioranza del proprio tempo in casa, senza studiare o lavorare e senza avere pressoché alcun contatto col mondo esterno.
Stimolato dalla misteriosa Misaki - che lo prende come soggetto di studio - a reagire, Tatsuhiro reincontra due vecchi compagni del liceo, Kaoru Yamazaki (un lolitomane all’ultimo stadio fissato coi bishojo game), e Hitomi Kashiwa, una maniaca depressiva fanatica delle teorie del complotto (una di queste, assolutamente maniacale, dà infatti il titolo al manga).”

 

 

 

Questa espressione di rifugio della nuova generazione giapponese, al pari delle più nostrane, in quanto ad incidenza, è un fenomeno piuttosto complesso e non la si può liquidare nel ritiro sociale di adolescenti difficili, esattamente come non si può ridurre la causa delle sindromi riferibili a disturbi del comportamento alimentare al solo rapporto disequilibrato col cibo.
In entrambe le situazioni si passa attraverso un blocco comunicativo col mondo, in una fase di vita, quale è la adolescenza, nel corso della quale l'individuo tenta di identificarsi ed emanciparsi, percepisce una realtà diversa da quella che aveva maturato nell'immaginario infantile e si percepisce impotente dinanzi al cambiamento. Sublima ed evita divenendo dipendente da tali comportamenti. Forse dinamiche famigliari opprimenti, iperprotettive e scarsamente educative contribuiscono all'insorgenza di tali sindromi; forse il contesto sociale omologativo e manipolativo rinforzano; forse l'appiattimento della comunicazione interpersonale stigmatizza l'espressione.
La comunicazione rappresenta un aspetto essenziale della nostra esistenza, del nostro divenire, ma, svolgendosi in situazione di reciprocità, oltre a trasmettere informazione, implica un impegno tra i comunicanti sino ad arrivare a definire la natura della loro relazione. Si comunica anche quando si tace, ci si nasconde, si evita e questo porta al vissuto di impotenza di chi tenta la negazione a difesa ad ogni costo.
É fatto indiscusso ed incontrovertibile l'oggettiva difficoltà della transizione dal microcosmo famigliare al macrocosmo rappresentato dal mondo esterno, l'acquisizione della consapevolezza di essere un'unità parte di un gruppo dinamico che richiede responsabilizzazione e capacità di scegliere autonomamente sostituendosi all'onnipotenza-dipendenza infantile. Una strettoia vitale carica di solitudine, di separazioni che, se oppressa, può spingere forzosamente verso l'imbuto della negazione, sia essa sociale o relativa ai bisogni primari.

Il dott. Saito ha avviato un programma rieducativo chiamato “New Start” che prevede il recupero delle relazioni interpersonali attraverso un'azione di formazione-lavoro destinato all'instaurarsi di legami che possano fare da ponte tra il ragazzo disagiato ed il mondo. L'azione terapeutica tende a disavvezzare il ragazzo dalla dipendenza, confrontandosi con le sue paure, rendendole oggettive e manipolabili tanto da riuscire ad affrontarle. I tempi necessari al fine terapeutico possono andare dai pochi mesi ad alcuni anni.(11)
All'Istituto «Minotauro» di Milano ovw ha preso corpo un Centro per la ricerca, la prevenzione e il trattamento dei disturbi del comportamento adolescenziale Adolescenza & Giustizia (13) presso il quale prestano la loro opera Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti, pare si stiano rivolgendo decine di genitori preoccupati per l'antisocialità espressa dai loro ragazzi.
«Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni '60-'70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri "autoreclusi" condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori ». All'origine c'è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall'incapacità di gestire relazioni di gruppo». Il risultato non cambia in quanto si chiudono in una stanza, sia essa reale che psichica, sostituiscono la vita reale con quella virtuale negando, così, il bisogno di relazionarsi agli altri. La realtà virtuale che agisce da ancora di salvezza, come sostiene Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, rappresenterebbe una delle conseguenze e non la causa, sovrapponibile alla negazione del corpo nelle anoressie (14 )
 

 

 
note bibliografiche:
(1)vedi: University of Hawai'i Manoa “Hikikomori as a Gendered Issue Analysis on the discourse of acute social withdrawal in contemporary Japan.” A research paper submitted to satisfy the requirements for History course number 425- Final Revision by Michael J. Dziesinski Honolulu, Hawaii, Fall Semester 2004; e “Discourses of Media and Scholars; Multicausal Explanations of the Phenomenon” by Dorota Krysinska MA,University of Warsaw, 2002 Submitted to the Graduate Faculty of Arts and Sciences in partial fulfillment of the requirements for the degree of Master of Arts in East Asian Studies University of Pittsburgh 2006;
(2)tratto dal documentario “hikikomori” realizzato da Francesco Jodice e Kal Karman ,
(3)New Addictions - Internet Addiction Disorder; Internet Addictive Disorder (IAD)Diagnostic Criteria, Ivan Goldberg ;
(4)http://homepage3.nifty.com/tamakis; http://www.sofu.or.jp
(5)«Maestro Kong» (551-479 a.C), conosciuto in Occidente col nome di Confucio, creò un sistema rituale e una dottrina morale e sociale, che si proponevano di rimediare alla decadenza spirituale della Cina, in un'epoca di profonda corruzione e di gravi sconvolgimenti politici. Confucio non si atteggiò mai a fondatore di una scuola filosofica, né volle istituire una religione nuova: andava, invece, ripetendo di voler "trasmettere e non creare, studiando ed amando le istituzioni dell'antichità". Ipotizzò un antico periodo aureo in cui saggi sovrani governavano la Cina e cercò di ristabilire tale modello mediante lo studio ed il miglioramento etico dell'individuo: il sistema filosofico-politico da lui auspicato prese il nome di confucianesimo Ma l'influsso di Confucio, se fu di poco conto durante la vita, divenne grandissimo dopo la sua morte. La religione di Confucio non è una fede che dipende da una "rivelazione", ma è piuttosto una filosofia esistenziale: non ci sono dogmi né clero (nel senso di una casta sacerdotale professionale, in quanto l'esecuzione dei riti era generalmente affidata a funzionari statali e capifamiglia). Essere virtuosi, per Confucio, significa avere autocontrollo, moderazione e saper agire con giustizia, a imitazione degli antichi, che non avevano leggi esteriori costrittive e che consideravano l'amore per il prossimo non un semplice dovere ma un'esigenza vitale. Prima di ricercare dio (che coincide col "cielo"), l'uomo deve conseguire questi prerequisiti umani attraverso l'educazione e l'autoeducazione. A chi gli chiedeva di parlargli dell'aldilà, Confucio rispose: "Non abbiamo ancora imparato a conoscere la vita, come potremo conoscere la morte?". Il primo ambito sociale in cui l'uomo impara ad essere autentico, secondo Confucio, è la famiglia. Il figlio apprende la pietà filiale: deve al padre rispetto e sostegno nella vecchiaia, mentre il padre gli assicura protezione e lo aiuta a formarsi. Il secondo ambito è la società civile, ove si apprendono e si applicano la giustizia, l'altruismo, la compassione e soprattutto la benevolenza (che sta alla base di tutte le virtù). Il terzo livello è quello dello Stato, ove i sudditi (specie i funzionari statali) sono tenuti alla lealtà-fedeltà, a condizione naturalmente che il sovrano governi con virtù e non con lassismo e corruzione o tramite la rigorosa applicazione delle leggi. Confucio era favorevole a una monarchia patriarcale, feudale e gerarchica.
(6)http://www.psychomedia.it/pm/pit/cybpat/pierdominici-palma.htm
(7)“La personalità narcisistica” ; Paola Calzolari
(8)“Shutting Themselves In”, Maggie Jones, New York Times, 15 gennaio 2006
(9)http://ssl.brookes.ac.uk/JIG/ejrc/members/jroberson.html
(10)http://it.wikipedia.org/wiki/Erich_Fromm
(11)“Hikikomori New Start animation”, un film creato da Jonathan Harris per la Kingstone University nel 2008: http://vodpod.com/watch/1529738-hikikomori-new-start-animation
(12)“Welcome to the N.H.K.“ edito nel 2002 dalla Kadokawa Shoten, scritta da Tatsuhiko Takimoto
ed illustrato da Yoshitoshi Abe ;
(13)video-recensione di N.H.K :
http://www.youtube.com/watch?v=TlFa7dy-F-s&eurl=http%3A%2F%2Fvideo.google.it%2Fvideosearch%3Fq%3DWelcome
%2Bto%2Bthe%2BNHK%26oe%3Dutf-8%26rls%3Dorg.mozilla%3Ait%3Aofficial%26client%3D&feature=player_embedded; http://www.nanoda.com/it/recensioni/manga/w/welcome-to-the-nhk.html
http://www.animeclick.it/manga.php?xtit=Welcome+to+the+NHK
(14)Adolescenza & Giustizia ;
video:
(15)http://www.dipendenze.com/nuovedipendenze/internet.asp
(16)L'immaginario sessuale di W.Pasini, C.Crépault, U.Galimberti – Raffaello Cortina Ed. - 1988
(17)http://video.google.it/videoplay?docid=70437781751594
29279&ei=dpcFSs3VF5ry2wK56oyiCQ&q=
Welcome+to+the+NHK&client=firefox-a

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